Si definisce “capitale intangibile” l’insieme delle risorse non monetarie e senza sostanza fisica che incidono sulla produzione, fornitura e consumo di beni e di servizi. Comprende il capitale umano (le conoscenze, le capacità, le abilità e le esperienze di chi lavora nell’impresa; il capitale organizzativo (le procedure e le pratiche organizzative, le attività di ricerca e sviluppo, i diritti di proprietà intellettuale); il capitale relazionale (l’insieme delle relazioni che collegano l’impresa al mondo esterno).
Esiste però un altro primario capitale intangibile, che rende unici e non replicabili i capitali sopraelencati e che li dota di carattere e di temperamento. È il capitale di civiltà espresso da un lavoro che sa raccontare la cultura che lo ha generato e si opponga alla massificazione del prodotto e all’anonimato produttivo. È il modo di lavorare, lo stile di processo che riflette il sottostante progetto di civiltà che lo anima. È il lavoro che dice secoli di vita, di pensiero e di passione. Capitale intangibile primario è il genius faber che rende i prodotti evidente espressione di chi li ha concepiti, del come sono stati realizzati, del dove hanno preso vita, del loro quando e perché.
Per rimanere davvero competitiva l’impresa italiana deve seguire la strada che oggi appare felicemente obbligata: caratterizzarsi per il genius faber italiano, per la proposta culturale, antropologica ed esistenziale espressa dal e nel suo lavoro e comunicata dai e nei suoi prodotti. In altre parole veicolare con l’inscindibile binomio lavoro-prodotto una tradizione fatta di efficienza, di tecnologia e contemporaneamente di benessere, convivialità, bellezza, artigianalità.
Il ragionamento è piuttosto semplice: chi cerca un prodotto italiano cerca innanzitutto l’italianità e la mediterraneità. È attratto da un’idea del vivere tradizionalmente associata al nostro Paese, sovente però tradita, intrisa di luoghi comuni e di stereotipi. Occorre quindi compiere una duplice operazione: portare alla luce gli elementi che costituiscono la nostra più autentica arte del vivere, vale a dire ciò che dello spirito italiano è cosa seria e non paccottiglia fieristica, e ricalare l’italianità nei processi produttivi, reinnestarne i caratteri nel lavoro e nel prodotto italiano del XXI secolo. C’è il rischio di accorgersi che, in maniera sorprendente, abbiamo le carte in regola per elaborare l’immaginario di una nuova economia.