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Intervista a Umberto Costamagna, fondatore di un call center etico

Umberto Costamagna

Umberto Costamagna è il fondatore e presidente di Call&Call, uno dei principali operatori italiani di BPO (business process outsourcing), focalizzato sui processi di marketing, customer care e vendita. Fondato nel 2001, oggi il gruppo conta 7 sedi operative in Italia, oltre 1.900 postazioni e 2.500 dipendenti.

Dal 2008, in controtendenza rispetto alla crisi economica, Costamagna ha assunto 1.500 persone a tempo indeterminato, soprattutto giovani, donne, e risorse localizzate al Sud. Il progetto dell’imprenditore è infatti quello di fondare una rete di realtà a misura d’uomo, cosa che lo ha portato a inaugurare il call center a La Spezia, sua città di origine, nel Salento, a Milano, a Locri, a Pistoia, a Cagliari e a Roma.

Abbiamo intervistato Umberto Costamagna per comprendere meglio i principi e le strategie imprenditoriali che ispirano il suo modo di fare impresa.

Ci descrive il suo modo di intendere il lavoro?

Da dieci anni siamo presenti a Locri, al momento abbiamo 350 persone assunte a tempo indeterminato: questo è un esempio concreto del nostro modo di fare impresa. A Natale 2014 abbiamo regalato ai fornitori, ai clienti e ai collaboratori quattro scritti di Adriano Olivetti, spiegando il motivo di questo dono: Olivetti intendeva restituire al lavoratore il senso di ciò che stava facendo, rompendo quella dicotomia tra vita lavorativa e vita reale secondo la quale la vita vera è quella che si svolge al di fuori dell’orario di lavoro, mentre il tempo trascorso in fabbrica riduce la persona a mero prestatore d’opera. Olivetti sosteneva la necessità di rompere questa schiavitù, affermando: “nel momento in cui mi rapporto con un lavoratore, mi rapporto come un uomo, non come un prestatore d’opera, come un uomo nella sua interezza”.
La mia non dev’essere una “scommessa” da imprenditore illuminato, ma una scelta concreta di responsabilità sociale, deve servire a far capire che non esiste dicotomia tra vita lavorativa e vita reale.

Come imprenditore, avverte la necessità di una maggiore sensibilità presso il mondo politico?

Non considero la politica una cosa sporca, anzi, penso sia quella cosa meravigliosa che ha spiegato Don Milani: “il tuo problema è uguale al mio, sortirne da soli è l’avarizia, sortirne assieme è la politica”. Io credo in questo tipo di politica. Oggi invece, purtroppo, in Italia la politica rinuncia, non ha una visione a lungo termine: trova la soluzione al problema nel breve termine, senza rendersi conto di creare un effetto domino su altri problemi. Da anni, con tutti i governi, faccio fatica a trovare soluzioni definitive di vera politica industriale. Forse potrebbe essere utile l’apporto dell’opinione pubblica, una maggiore consapevolezza da parte di tutti.

Quali sono le difficoltà maggiori cui va incontro?

Il vero problema in questo settore è l’incertezza della domanda della committenza. Il call center deve avere le risorse giuste per gestire il traffico che gli viene affidato, che a sua volta dipende da quante telefonate arrivano al nostro cliente. Se si utilizzano troppe risorse e arrivano poche telefonate, occorre comunque pagare le persone, perché sono assunte a tempo indeterminato; se si ricevono più chiamate delle risorse disponibili, si viene penalizzati dal committente perché non si rispettano i tempi di risposta.

La consapevolezza, da parte dell’opinione pubblica, che non tutti i call center sono luoghi di precariato, è importante. Siamo stati riconosciuti tra le aziende in cui si vive meglio: nel 2013 abbiamo concesso, fra le prime aziende in Italia, le licenze matrimoniali alle coppie omosessuali che si sposavano nei Paesi dove era permesso, facendo anche un accordo sindacale in merito.

Come si può spezzare la solitudine dell’imprenditore? Sente di poter incontrare sulla sua strada dei compagni di viaggio?

Non solo ci sono, ma stanno aumentando. La sensazione è che queste idee stiano iniziando a passare; con fatica, la crisi non aiuta, ma c’è l’idea di fare rete tra chi condivide i valori, purché lo faccia veramente.

Mi è stato chiesto che innovazione ho fatto in un settore che era un “telefonificio”: l’innovazione è stata investire nei valori più che nel prodotto, sostenere che il lavoro in un call center è un lavoro dignitoso. L’operatore non è un telefonista, ma un esperto nella relazione con il cliente; attraverso questa relazione, e dunque attraverso la professionalità dell’operatore di call center, passano i valori dell’azienda che rappresenta. La responsabilità dell’operatore è immensa: sta gestendo il patrimonio più grande, il cliente finale. Perché non renderlo felice, pagarlo, motivarlo?

Questa sua attenzione dichiarata e applicata per estetica, etica, senso, significatività, secondo lei è abbinabile a un concetto di italianità di lavoro?

Non ci ho mai pensato. Il nostro settore richiede un lavoro basato su relazione e comunicazione, è necessario avere un paradigma formata da sintonia, lingua e concetti, impossibile da avere quando risponde un call center dall’Albania. Un lavoro made in Italy, un modo italiano di affrontare il lavoro, è sicuramente vero, esiste. Questa è la strada che la mia impresa ha scelto.

Il lavoro italiano inteso come prodotto, dunque?

Certo, sarebbe interessante parlarne. Come sarebbe interessante parlare anche di un altro collegamento: mi piacerebbe fare un convegno, dal titolo “L come Lavoro, L come Legalità”. A Locri, ad esempio, siamo la più grande realtà occupazionale della zona; nel Salento siamo presenti con 650 persone – tutte assunte a tempo indeterminato – in un deserto che un tempo era la zona industriale della Filanto, un’azienda che faceva prodotti calzaturieri e in cui tutta la componente artigianale era stata annullata dalla produzione in serie e dalla corsa alla riduzione dei costi. In quello che era il salone delle feste, un capannone di circa 3000 m2, abbiamo creato il call center, dotando i supervisor di monopattini per muoversi. In tutti i nostri call center abbiamo una biblioteca, che abbiamo definito “Libri liberi”: portiamo o ci regalano libri, senza tessere né riconoscimento. Chiunque può prendere un libro e anche tenerselo, perché abbiamo stabilito che rubare un libro non è reato.

Come vengono percepite la sue iniziative?

I dipendenti sentono molto forte questo imprinting. A La Spezia, dove abbiamo 700 persone assunte di cui il 78% donne, abbiamo avuto un problema di calo di traffico e abbiamo fatto un accordo sindacale per una cassa integrazione di due mesi, fissando un tetto del 25% della forza lavoro. Siamo arrivati al massimo al 5% di utilizzo! Hanno intervistato i nostri dipendenti, che hanno risposto “noi ci fidiamo di Umberto Costamagna”. Questo è frutto di un rapporto che abbiamo costruito negli anni: possono telefonarmi e contattarmi in qualsiasi momento. Oggi però, con 2500 persone, è diventato difficile essere presenti fisicamente; inoltre, quando c’è da prendere una decisione impopolare ma necessaria per il bene di tutti – a Milano dovevamo ridurre il personale perché eravamo in perdita da anni e stavamo rischiano grosso – la reazione è quella di sentirlo come un tradimento. Le reazioni che ci sono state mi hanno ferito molto profondamente, lo dico con sincerità.

Per quanto riguarda la comunità locale, noi abbiamo un ottimo rapporto, anche un po’ interessato a dire il vero: siamo la principale fonte di occupazione, specie in questo periodo di crisi. Abbiamo cercato di radicarci nel territorio, per far capire che noi ci siamo; abbiamo anche organizzato attività di solidarietà, sempre a livello locale.

Tutto questo è eccezionalità o normalità?

Non è solo un’eccezione, ma anche un’eccezione “stonata”: ci si chiede sempre se c’è la fregatura, come e dove. Ma sono i miei valori, io li applico, anche se il sistema economico fa fatica. Insomma, il risultato di una “normalità” di visione che però nel panorama attuale rischia di diventare “eccezionalità”.

Alla luce del discorso che ci ha fatto, crede ancora che l’etica possa essere acceleratore dell’economia?

Sì, assolutamente. Questo è il momento più difficile, ma forse è anche quello in cui è più necessario crederci. E non la sento come una scelta, semplicemente non potrei fare diversamente.

Recentemente ci siamo messi su una strada di attenzione ai costi; abbiamo dovuto lasciare a casa quattro persone perché la loro funzione non esisteva più. In un’azienda classica sarebbe la normalità, per me è una sofferenza.

La mia è un’azienda strana da gestire: nel momento in cui si affermano certi valori, poi è necessario essere loro fedeli, rispettarli. Se siamo arrivati dove siamo è anche grazie a una serie di valori intangibili, che nel bilancio non si vedono.

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