Il bisogno di fare comunità per trasmettere i valori lavorativi. “Quale made in Italy voglio e posso raccontare”? È la domanda che anima lo spirito lavorativo dell’imprenditrice Roberta Alessandri del distretto calzaturiero di San Mauro Pascoli.
San Mauro Pascoli è da più di un secolo distretto della calzatura. Definirebbe oggi il distretto una comunità di lavoro?
Innanzi tutto bisognerebbe chiarire il significato di comunità di lavoro. Quello di San Mauro Pascoli è senz’altro un territorio straordinario, la cui economia lavorativa ed occupazionale gravita attorno al distretto. Abbiamo, peraltro, anche una scuola di tecnica calzaturiera che esiste da trent’anni attraverso la quale si trasmettono tecnica ed alte competenze, creando così occupazione e lavoro. Se per comunità di lavoro, invece, intendiamo una coesione tra gli attori del distretto che porti a riconoscere il valore del nostro lavoro, francamente no. Questo distretto ha bisogno di affrontare un cambio importante di paradigma culturale di riferimento per potere essere una comunità di lavoro in senso valoriale. Un valore rappresentato da intelligenze e competenze che del made in Italy traducono l’idea stilistica in prodotto e quindi ne sono la testa, la mente, il cuore. Sono un’imprenditrice e quindi con il mio lavoro trasmetto la pancia, la mente e il cuore di un territorio il cui snodo è la vocazione calzaturiera.
Il territorio e la comunità sono gli elementi attraverso cui preservare le eccellenze del lavoro italiano. La formazione dei giovani del territorio rappresenta una risorsa fondamentale per continuare a mantenere un lavoro di qualità. Oltre al saper fare quale genere di saper essere ritiene importante per rendere un’impresa competitiva?
Io credo sia perentorio riconoscersi, quindi riconoscere innanzi tutto chi siamo, che identità ci rappresenta attraverso il prodotto ed oltre. Se penso ad un’impresa come la mia, che è una piccola e media impresa artigiana con 20 addetti, penso a quale made in Italy voglio e posso raccontare. Ho l’impressione che molto spesso ci accontentiamo di ricondurre al prodotto made in Italy quello che è partorito all’interno di un confine nazionale. Non mi basta questo se vogliamo parlare di saper fare e saper essere, perché quel prodotto deve essere anche concepito nel rispetto di un percorso, di un processo che parte dalle radici, che parte dalla tradizione italiana che è metodo di lavoro e trasparenza del processo produttivo sottostante la filiera. Queste caratteristiche si evincono dal rispetto di tutta una serie di precondizioni che sono i diritti delle mani che quel prodotto hanno realizzato. Potremmo parlare di diritti delle mani, di diritti della mente e anche di diritti “dei piedi”, cioè diritti del territorio dove abbiamo le nostre radici. Questi sono ingredienti che rappresentano i driver fondamentali per la competitività delle imprese che si trasmettono attraverso il rispetto dell’ambiente, del suolo su cui il prodotto è nato, e che vanno a beneficio anche della salute del consumatore. Saper fare e saper essere, nella mia visione di piccola e media impresa artigiana, è senz’altro quando io posso rendere visibile il lavoro che ha generato quel prodotto. Quando quel percorso può diventare patrimonio di conoscenza anche del consumatore che può decidere non solo in base a quella che è un’idea soggettiva del bello, ma anche premiando un bello oggettivo, bello e ben fatto. Dove nel ben fatto io riprendo un concetto di qualità immateriale che è la qualità della vita, che è il rispetto del lavoro di tutti, lavoratori e anche imprenditori.
Secondo Genius Faber fare rete, ovvero creare autentiche reti di aziende che lavorano in sintonia è imprescindibile per costruire il futuro dell’artigianato italiano. Lei cosa ne pensa?
Sarò impopolare, ma penso che “piccolo è bello” è un binomio che rischia di non essere più di moda, perché per essere competitivi oggi è indispensabile avere una fortissima specializzazione verticale. In un prodotto si riassume la competenza parcellizzata di tante aziende, che singolarmente contribuiscono all’eccellenza del prodotto finale. Credo che fare rete, oggi più di ieri, sia la precondizione per le piccole realtà artigiane, soprattutto per poter elevare il loro potenziale. Solo mettendo a fattor comune (prima parlavo di intelligenze perché credo fortemente che attraverso la formazione emerga la testa) l’intelligenza del saper fare queste competenze diventano eccellenze. Si deve contribuire insieme nel farsi riconoscere dal mercato, dai player, dalle imprese di subfornitura e di committenza. La rete per me è una condizione per incrementare la competitività, lo sviluppo e la crescita delle singole imprese.
Esiste un problema legato alla concorrenza al ribasso, dovuto spesso alla presenza di grandi player che fanno il mercato. Quale può essere la risposta?
Dal mio angolo di osservazione, salvo lodevolissimi casi, isolatissimi, esiste un mercato che non seleziona le imprese sulla base del rispetto delle stesse regole tra competitori. La pressione sul minor prezzo accelera solo la perdita di competenze. Non produce né attrattività dal punto di vista degli investimenti stranieri sui nostri territori, né nei confronti dei giovani verso il nostro mestiere. Quando un brand esternalizza una lavorazione sta spostando ovviamente un costo, la scelta dovrebbe riuscire a tenere in equilibrio sia il fattore economico e l’efficienza organizzativa del sub fornitore, ma anche la qualità e la garanzia di rispetto del processo di produzione. Deve generare quell’equilibrio che supporta e garantisce il saper fare e il saper essere. Se questo non avviene si impoverisce tutto, si sfilacciano le filiere, si disperdono i saperi e le competenze. Mi sento di dire che alla lunga si impoverisce anche la creatività stilistica dei brand. Non è un caso che, dal punto di vista tecnico, il mondo calzaturiero negli ultimi anni, nei modelli di stile e nelle tendenze di moda si sia alleggerito, non voglio dire che si è annacquato, ma è cambiato. Oggi si enfatizzano prodotti come le sneakers nel lusso, è vero che è un mega-trend ma, attenzione, le sneakers oggi entrano nel lusso perché sono produzioni facilmente delocalizzabili all’estero, qui io vedo un rischio forte di perdere identità, storia, conoscenza, valore. Rafforzare le filiere direttamente o indirettamente va a giovamento anche dei player. È vero che i player hanno dato tanto a questo distretto, va riconosciuto, ma è altrettanto vero che la rete della subfornitura ha fatto della specializzazione verticale un fortissimo punto di forza.
La filiera che è la base dei grandi marchi del Made in Italy spesso è poco valutata, come ridare forza contrattuale e presenza alla filiera produttiva?
Si crea valore per la filiera solo se questa viene raccontata, solo se può essere narrata, espressa e resa visibile. Ecco, credo che questa sia la nostra chiave di volta, mi riferisco anche ad un’indispensabile azione di comunicazione trasversale nazionale, che possa migliorare l’attrattiva dei nostri mestieri presso i giovani. È indispensabile costruire un DNA lavorativo attorno al quale possano sentire di appartenere, essere coinvolti, attratti, sostenuti. La comunicazione risulta fondamentale, il racconto di un saper fare che poi è un saper essere deve arrivare ai player ai consumatori e al mondo.