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L’eudaimonia nel lavoro. Il ben essere come motore di nuova economia

L’eudaimonia nel lavoro. Il ben essere come motore di nuova economia

La grande separazione

Un problema si agita da secoli nelle viscere dell’occidente: il lavoro separato dalle ragioni del vivere. In altre parole l’aver dimenticato che quando lavoriamo non produciamo soltanto beni o servizi, ma produciamo noi stessi. Da tempo sostengo che un certo modo di intendere, progettare e vivere il lavoro ha depauperato la nostra esistenza. La ha resa per molta parte falsa e ridicola. La ha trasformata in una farsa in cui recitiamo un copione che sovente sappiamo e sentiamo insensato. Il lavoro non sembra in grado di penetrare nel cuore dell’uomo e di alimentarne l’esistenza. Non si preoccupa di significare la vita umana, e da essa ottiene in risposta disagio e apatia.

La grande separazione, quella tra vita e lavoro, è antica quanto la civiltà occidentale. Inizia con il pensiero greco. Giunge al suo epilogo nel mondo contemporaneo con il lavoro reso semplice mezzo per guadagnarsi da vivere, ridotto a merce e privato di ogni carattere etico e spirituale.

Il principio di performanza, o se si vuole di prestazione, ha ridotto il senso del lavoro a due sole accezioni: da una parte azione produttiva finalizzata all’efficace ed efficiente raggiungimento dello scopo sulla base di un progetto produttivo; dall’altra merce retta dal mero calcolo d’un tornaconto, assorbita nella contabilità monetaria. Nessuno spazio ulteriore. Preda dei gorghi dell’utile, dell’utilizzabile e del monetizzabile, il lavoro si è de-esistenziato.

Una nuova politica del lavoro

Mai come oggi occorre essere consapevoli che il vero fattore competitivo per l’economia occidentale è e sempre più sarà la qualità esistenziale del processo produttivo. Per non sparire trangugiato da altre potenze emergenti l’occidente deve puntare su un’idea di vita sottostante l’agire economico. Parlare di ben essere implica un’interpretazione schiettamente politica del lavoro, un particolare modo di interpretare le imprese e il sistema produttivo, all’interno di un mutato scenario di impegni etici e di responsabilità imprenditoriali da cui emerga il ruolo e la funzione dell’impresa civile. Con ciò intendo che l’agire d’impresa deve sempre essere finalizzato a tradurre in progresso sociale e in crescita civile il processo produttivo e i risultati che ne derivano.

Un patto di civiltà a partire dal lavoro

E’ indubitabile che il nostro Paese debba ripartire, tornare a fiorire. Serve a tal fine che le varie parti sociali stendano un rinnovato patto di civiltà. In grado di ricompattare il Paese attorno ad un traguardo comune. Intercettare e orientare la crescente, anche se sovente sotterranea, domanda esistenziale è strategico per la nostra crescita economica e sociale. E’ necessario riunirci attorno a un’idea di civile convivenza, a partire da cui avviare un serio processo collettivo di riprogettazione esistenziale. Attorno a che cosa tentare una convergenza di interessi e di impegni? Perché un patto di civiltà sia credibile occorre riunire forze e attori sociali attorno al progetto di una concreta e praticabile civile felicità, attorno a un’idea di vita – individuale e collettiva – piena e appagante.

Da dove partire per realizzare il ben essere individuale e collettivo? La mia proposta è: dalla sfera economico produttiva, in particolare dal lavoro! Dalla sfera apparentemente più compromessa con l’insensatezza tecnico produttiva. Il valore di una qualsiasi proposta di civiltà si misura non da quanto marginalizza il lavoro, ma da quanto sa e riesce a metterlo al proprio centro. Non cercando il ben essere attraverso il lavoro, considerato come semplice momento e strumento produttivo e di arricchimento materiale, ma nel lavoro, inteso e valorizzato in quanto luogo di buona esistenza. Lavoro capace di essere occasione di crescita materiale e, contemporaneamente, spirituale, etica, estetica, relazionale. Occorre avere il coraggio di compiere il ribaltamento prospettico considerato eretico da tanta parte del pensiero occidentale: lo sviluppo integrale dell’uomo non va cercato dopo o senza il lavoro, una volta assolte e risolte le sue necessità. L’essere umano è chiamato a incontrare la sua umanità mentre rende davvero umane le sue necessità materiali. Diventa tanto più uomo quanto più aspira ad esistenziare tutte le sue espressioni, a cominciare dal lavoro produttivo. Al fine di farne occasione di buon esistere.

In questo inizio di millennio il lavoro soffre della stessa “precarietà” che colpisce l’esistenza di milioni di persone. La loro precarietà lavorativa non è che l’altra faccia della loro precarietà esistenziale. E’ una condizione che non deriva soltanto dalle clausole del contratto di lavoro. Precario è colui che non riesce a dare spessore esistenziale al vivere e continuità di significato alle attività. E’ chi non è in grado di riunificare il fare all’interno di un disegno unitario, chi non sa o non può raccordarlo ad una compiuta idea di sé, degli altri, del mondo. Precario è colui che non vive il lavoro, ma si limita a consumarlo, senza uno scopo, una meta, un senso. Ciò che vale per le persone, vale a maggior ragione per le imprese e per tutti i sistemi organizzativi.

L’eudaimonia nel lavoro

Parlare di felicità e di ben essere nel lavoro può essere fonte di fraintendimenti. Meglio forse ricorrere ad un termine meno usurato, che, seppur risalente alla tradizione classica greca, è più fresco e maneggevole: eudaimonia. Con il termine “eudaimonia” i Greci antichi intendevano una vita realizzata, compiuta, completa. Eudaimonica è una vita degna di essere vissuta in quanto capace di essere in sintonia con le più profonde caratteristiche dell’essere umano.

L’eudaimonia lavorativa consiste nel riconoscimento e nella valorizzazione di una serie di specifiche capacità-funzioni caratterizzanti una vita lavorativa degna di essere vissuta.

Il lavoro reso eudaimonico (riprogettato cioè nelle sue dinamiche, nei suoi tempi, nelle sue logiche in vista di traguardi di pienezza e di fioritura esistenziale) è la dimensione in cui e da cui riformulare le regole del nostro vivere civile. L’eudaimonia lavorativa si sviluppa partire dalle seguenti, concretissime domande: La persona è lavorativamente nelle condizioni di agire e di vivere in modo pienamente umano? Può cioè godere delle opportunità per disporre sul lavoro delle sue capacità fondamentali? Riesce quindi, attraverso il suo lavoro, ad essere una persona migliore, per sé e per gli altri? Domande che in apparenza hanno poco a che fare con la dimensione lavorativa, ma è proprio da questo pregiudizio che dobbiamo il prima possibile liberarci!

Salute dell’impresa e ben essere eudaimonico

Vecchi criteri di valore non funzionano più. Il valore autentico di un’organizzazione risiede nel suo capitale eudaimonico, nell’insieme dei processi di qualità del vivere da essa attivati. Il capitale eudaimonico costituisce il vero e profondo patrimonio intangibile di un’organizzazione. Un buon tasso di eudaimonia lavorativa rappresenta il fattore in grado di rendere non effimere, non volatili e non superficiali le sue risorse intellettuali, procedurali e relazionali.

L’autentico ben essere lavorativo costituisce un bene intangibile in grado di dotare di valore e di qualità profonda qualsiasi sistema produttivo, pubblico o privato, e da cui non si può più prescindere per rendere le imprese italiane davvero innovative e civilmente competitive. Il capitale eudaimonico costituisce l’elemento strategico per rendere durevole, stabile e radicato il processo organizzativo di ricerca dell’autentica qualità.

Esistono ormai una messe di dati da cui emerge chiaramente quanto investire in autentico ben essere convenga, anche in termini di produttività e profitto. Basti pensare a quanto l’eudaimonia lavorativa è decisiva per la riduzione dell’assenteismo, la riduzione del numero di errori, l’aumento della produttività, l’innalzamento della percezione del valore del prodotto presso la clientela, il contenimento della conflittualità sindacale, tanto per citare alcuni indicatori traducibili in valore monetario.

Eudaimonia e Made in Italy

In un periodo di forte competizione internazionale, in contesti dove il prodotto italiano deve fronteggiare una spietata concorrenza, le aziende devono rivedere il loro concetto di qualità. Chi acquista un prodotto italiano deve percepire l’eco di un modo di lavorare espressione di un particolare stile di vita. L’eudaimonia lavorativa, considerata come strategico bene intangibile, rappresenta un punto di svolta. Beni e servizi prodotti in maniera eudaimonica contengono l’invito a partecipare ad un’esperienza fondata sul ben essere e sulla qualità del vivere. Il ben vivere può e deve tornare a caratterizzare i prodotti autenticamente made in Italy, per dar loro particolare valore aggiunto e nuova e diversa competitività.

Fuori dalla secca

La riflessione sul ben essere eudaimonico è oggi indispensabile al pensiero economico manageriale per tentare un’opera collettiva di rivitalizzazione e rigenerazione esistenziale. Con ciò intendo il tentativo di recuperare l’impresa ad un’idea di impegno civile, di responsabilità esistenziale e sociale che ulteriorizzi le logiche di profitto. Intendo il tentativo di portare ciascun lavoratore a cercare durante il lavoro, nel corso dell’attività lavorativa, la pienezza della sua esistenza. Intendo lo sforzo di mettere le forze materiali al servizio di forze spirituali (l’asservimento alla tecnica e al profitto è un paradigma concettuale che da decenni ha pericolosamente immobilizzato le energie etiche dell’Occidente!)

Penso che oggi ci sia tremendamente bisogno di aiutare le persone a pensare a ciò che fanno e a che cosa fanno di loro stesse nel corso della loro attività lavorativa. Quale se stesse producono? Quale umanità generano? Quale mondo determinano? Sono domande schiettamente filosofiche, ma impattano pesantemente sulle dinamiche economiche. Riuscire ad articolarle è la via per condurci fuori da una secca che rischia di condannare le nostre esistenze ad una vita mal vissuta e i sistemi produttivi ad uno stallo mortale.

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