Terre di Lavoro

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La città che è due

Tratalias

Tratalias non è una città, è due. Una è il borgo tinto dal sole che si manifesta al sentimento di chi la scopre nell’ora più lieve del tramonto, quella che precede l’imbrunire tenendosi in equilibrio su un raggio di luce teso tra le case. L’altra è la Tratalias che appare all’alba di ogni giorno, quella che si vorrebbe dimenticare, e che invece si ripresenta ostinata quando ti ripari gli occhi con le mani, e apri un varco sottile tra le dita, sperando che sia solo un’illusione. Lei è li, immobile ed esanime, al centro di una radura arsa.

Un tempo le due cittadine erano una, e Tratalias, come tutte le città, si animava di giorno e si riposava di notte. Nel borgo vivevano le persone e le loro storie, la memoria di secoli addietro e la speranza di un futuro che si immaginava sempre migliore per i figli e per i figli di quei figli. La decisione di costruire un lago artificiale ha reso necessario sbarrare il corso del fiume Palmas. Così è accaduto, ed il Lago Pranu ha invaso i campi con lo stupore di un evento che si manifesta senza comprendere le ragioni del suo essere, né tantomeno le conseguenze del suo nascere al di fuori di ogni legge di natura.

Il canto morbido e liquido del fiume, rimbalzando sulla impietosa superficie di una parete di cemento devia il suo corso, trasformandosi in un’eco che in lunghe onde si inabissa nel terreno. Distorta nella sua natura più profonda, la voce del fiume cerca una via di uscita, richiamata dalla corrente che per secoli l’ha portata nella stessa direzione. Il rio si apre un varco tra l’argilla e le radici degli ulivi. Cerca scampo, è un sepolto vivo, avido di luce e di aria. Scava con dita lunghissime e sottili una disperata via di uscita. Il torrente corre e si inabissa, attratto dalla memoria di qualcosa che gli appartiene, fino a quando riconosce il colore delle case e l’odore della terra. Allora risale rapido e si aggrappa alle fondamenta delle case, alle mura calde di sole e odorose di pigmenti colorati.

Quindi si trasforma in lacrime, che risalgono la terra e lambiscono l’antica Tratalias. Si riprende così il suo villaggio, lo stringe in una presa liquida che lo ammala e ne fa marcire la memoria. Le lacrime non possono cadere dal basso verso l’alto, nemmeno se sono lacrime di fiume. L’acqua violata spezza il suo fluire e si trasforma in lama tagliente, che separa e ferisce.

È stato allora che il paese si è diviso. Tratalias si è strappata da se stessa, dando vita a quel fenomeno che il viaggiatore può osservare, arrivando in questo lembo del Sulcis nell’ora del tramonto. La nuova Tratalias, costruita 100 metri più a monte, è una carcassa senza anima che distende le sue ossa sbiancate e odorose di malinconica assenza lungo il fianco della collina.

La vecchia Tratalias, nuda e fragile, pulsa di vita sradicata, cerca rifugio all’ombra di alberi secolari e strade che offrono rifugio a qualche cane.
Tratalias, per quello che era, non esiste più, condannata a essere invisibile all’orizzonte di chi passa, se non per qualche istante, nella luce del tramonto. Tratalias, per quello che è, si ritrova distesa sul ciglio di una strada, immobile e grottesca nel suo tentativo scomposto di dare forma a un progetto di rinascita fallito. Il lago, poco distante, rimane a dichiarare la sua presunta innocenza, la buona intenzione di fornire acqua a un territorio assetato per natura. A Tratalias, nell’ora del tramonto, l’aria si tinge di infinite sfumature di spezie e di corallo, e piccole finestre si aprono su un orizzonte che odora di ginepro ed elicriso. I raggi del sole colpiscono la memoria che galleggia libera nell’aria, in cerca di una forma che la sappia contenere.

Lo sguardo di chi passa può seguire il contorno di un’impronta, il suono lontano di voci e di mani che lavorano.

Lentamente, appare la città invisibile. L’antica chiesa romanica si erge improvvisa, aprendosi in un respiro che ne rende piena la materia.
Per qualche attimo, la città si manifesta nel preciso istante in cui sogna se stessa, e si ritrova sospesa, nella attesa di una voce che ne sappia pronunciare il nome senza tremare di paura o di sconcerto. Ma la voce non esce dalla bocca delle case, e il sole è ormai troppo basso all’orizzonte. Ancora qualche istante, poi il villaggio scompare affogato nella notte. Domani, un nuovo giorno racconterà alla terra e al fiume che scorre nel suo ventre, la storia folle e sconclusionata di un villaggio che sono due, della loro anima slogata, divisa in due parti ammalate di distanza.

Di qui, le pietre che respirano lente e calde, di là le ossa fredde e spolpate di memoria che il sole non riesce a sbriciolare. Tra le due, lo sguardo sorpreso e incredulo degli abitanti, costretti a vivere tra un sogno che si vorrebbe tornare a rendere reale e una realtà malata per la mancanza di immaginazione.

Orfani di passato e bisognosi di futuro, gli uomini e le donne di Tratalias portano con loro la storia di Fenici, Romani e Saraceni, Pisani, Vandali, Bizantini e Aragonesi. Ogni giorno si incamminano con il loro bagaglio di storia in cerca di un luogo sicuro in cui depositare un patrimonio di millenni.

I turisti sono bene accolti, ma il loro passaggio tra le strade nell’ora del tramonto rende ancora più visibile l’umana e folle pulsione di abbattere una creatura di incomparabile bellezza per poi farsi fotografare con un piede poggiato sul torace della preda, ancora gonfio di un ultimo respiro.

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