In ZÝMĒ, l’azienda di Celestino Gaspari, si radunano in modo esemplare molti tratti di quel DNA che distingue il lavoro italiano e lo rende patrimonio unico e inimitabile.
Spiritualità, vivenza, etica ed estetica, convivono in questa terra di Valpolicella, nel mezzo di uno dei territori della regione più vocati alla viticoltura. Qui Celestino Gaspari ha creato un luogo di incontro tra conoscenze e lavoro inteso come arte di vivere. Lo abbiamo intervistato, per comprendere in che modo il suo lavoro permette di ricavare un messaggio di cultura e insegnamento da un prodotto della natura.
La vostra comunicazione e i vostri prodotti rappresentano un caso di coerenza e virtuoso connubio tra il saper fare e il saper essere. Come ci siete arrivati?
A partire dalla mia storia personale, che inizia proprio con il saper fare. Ho iniziato molto giovane con un’esperienza di lavoro a diretto contatto con la terra, poi sono stato impiegato per molti anni nel settore della zootecnica. Ho iniziato quindi a fornire consulenze per la creazione di imprese, assistendo alla nascita di 17 nuove imprese, prima di diventare io stesso imprenditore. Dopo aver tanto lavorato, mi è venuto naturale impostare il mio lavoro di imprenditore secondo criteri di coerenza e correttezza, coniugando il modo di vivere con il modo di fare.
Per la vostra azienda, migliorare la vita delle persone e dell’ambiente è importante tanto quanto produrre vini prestigiosi e riconosciuti a livello internazionale. In che modo una azienda può migliorare la vita delle persone?
Innanzi tutto offrendo alle persone prodotti veri, di qualità, capaci di raccontare una storia e di farsi portatori di altre storie. Rispettando il territorio, ma anche le persone e i procedimenti. Guardi la mia cantina. Qui ogni cosa parla dell’importanza di dedicare i giusti spazi ma anche i giusti tempi alle cose e alle persone. Io lo faccio con i vini, che chiedono di essere seguiti in tutti i loro passaggi con i tempi che sono loro necessari, ma adotto lo stesso sistema con le persone. Anche ai miei collaboratori io concedo tempo, tempo per svelarsi e per comprendere, per tirare fuori il meglio di loro.
Zymè dichiara che tutto ciò che la terra dona, alla terra va restituito in termini di cura, valorizzazione e salvaguardia. In che modo un’impresa può farlo in modo vantaggioso?
Occorre innanzi tutto investire, senza troppo pensare ai profitti immediati. Noi qui abbiamo impianti fotovoltaici, sistemi evoluti di bio compatibilità ed energia verde. Un grande investimento iniziale, ma adesso i nostri costi sono abbattuti, con vantaggi per noi e per l’ambiente.
Anche questa stessa cantina è un esempio di come sia possibile conciliare i ricavi con la restituzione. La sede dove ci troviamo era una cava abbandonata, aperta sulla strada, nessuno registrava il valore di questo luogo. Ho fatto un’offerta e l’ho comprata, ripulita, letto le sue caratteristiche, che sembravano fatte apposta per contenere i vini. Quando ho inaugurato e invitato colleghi e amici, molti di loro sono rimasti stupiti, nessuno aveva visto in quel luogo abbandonato quello che avrebbe potuto diventare.
La vostra azienda sostiene che etica ed estetica debbano convivere e riverberarsi nella produzione attraverso il rapporto armonico tra natura e cultura, tecnologia e tradizione. Valori come questo creano un patrimonio intangibile, impossibile da contraffare: è forse questa la strategia migliore per tutelare il Made in Italy?
Io credo che la prima strategia sia l’apertura. Abbiamo tutti paura che qualcuno ci possa copiare, e inventiamo modi per chiudere e blindare, persino tra di noi. Il mio sforzo è quello di aprire, cercare connessioni con gli altri. È nella rete e nella condivisone la nostra forza, per questo faccio parte della Federazione Italiana Vignaioli Indipendenti. Guardate la mia azienda, non ci sono recinzioni, tutto è pensato come un abbraccio che accoglie. L’Italia è un ponte tra occidente e oriente. Nessuno potrà mai imitare il nostro modo di produrre, il nostro sapere, la nostra storia.
In che senso il suo vino è leggibile, e che tipo di storia racconta? E in questa storia, che spazio ha il lavoro dell’uomo?
La storia nasce dall’interazione tra l’uomo e il prodotto. Io prima interrogo il territorio, le uve, le produzioni, e poi scrivo il racconto del vino. È il caso di Arlequine, che della maschera racconta la varietà, la capacità di adattarsi, l’armonia che si crea nel mettere insieme le diversità.
Voi siete dei campioni di italianità: il valore del vostro lavoro Made in Italy quanto viene percepito, soprattutto all’estero?
Cerchiamo di trasmetterlo direttamente ai clienti, con la nostra testimonianza e il racconto diretto. Utilizziamo immagini, cura del sito e dei materiali illustrativi. Per il resto, contiamo sulla soddisfazione del cliente che prova il prodotto, lo apprezza e continua a sceglierci.