Terre di Lavoro

Il Paesaggio interpretato e comunicato attraverso l'identità lavorativa dei Territori.

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1. Orizzontalità e verticalità 

Nel 1923, a Berlino perché espulso dalla Russia sovietica, il filosofo russo Nikolaj berdjaev pubblica Nuovo Medioevo. Il libro contiene riflessioni di sorprendente modernità, che introducono alla tesi che qui vorrei sostenere: la necessità, antropologica, etica, esistenziale, prim’ancora che economica, di tornare a parlare di territori lavorativi, vale a dire di geometrie del vivere all’insegna della profondità e dell’altezza

La storia moderna è un’impresa che ha fallito, che non è riuscita a glorificare l’uomo, come lasciava sperare […]. L’uomo è terribilmente stanco ed è pronto ad appoggiarsi su qualunque tipo di collettivismo, dentro il quale la sua individualità sia definitivamente destinata a sparire. L’uomo non riesce più a sopportare la propria solitudine

L’uomo ha spezzato i propri legami con il centro spirituale dell’esistenza, ha con ciò abbandonato la profondità e si è spostato alla superficie. Allontanandosi dal centro spirituale, cioè, è diventato sempre più superficiale […]. L’uomo ha cessato di essere un organismo spirituale. Sono allora comparsi, alla periferia della vita, dei centri fasulli. Gli organi subordinati alla vita umana, essendosi liberati dalla loro relazione organica con il centro autentico, si sono autoproclamati centri vitali. […] L’uomo europeo si trova in uno stato di terribile vacuità. Non sa più dove sia il centro della propria vita. 

Sotto ai piedi, non sente più alcuna profondità. Si dedica a un’esistenza del tutto piatta. Vive a due dimensioni, come se appartenesse, letteralmente, alla superficie terrestre, ignorando ciò che è sopra e che è sotto di lui (Berdjaev 2004, 7-9; corsivi miei). 

Mentre Berdjaev scriveva queste parole, il secolo XX dava corso di apparente destino al fenomeno della globalizzazione. Il termine ‘globalizzazione’ contiene due significati del tutto diversi: da una parte insieme delle dinamiche di interconnessione planetaria di eventi e fenomeni, dall’altra processo di unificazione del mondo su logiche e fini omologanti, all’interno di un anonimato relazionale, valoriale, culturale e soprattutto spaziale

La globalizzazione è fenomeno antico, che caratterizza la nascita e lo sviluppo della modernità. Ciò che di traumatico essa contiene non è soltanto la perdita di un centro unificante, quanto l’evaporazione dei contorni che contrassegnano il dentro e fuori. Prima della modernità il mondo era rappresentato da certi punti di vista, ovvero dalla prospettiva di soggetti che osservavano dal loro dentro ciò che era il loro fuori. La globalizzazione ha come centrifugato il dentro e fuori, ha eletto il Fuori a paradigma dominante (Sloterdijk 2005). Il mondo si è trasformato in qualcosa in cui non si sta, ma in cui si passa, un luogo di transito. E così, mentre è svanito il punto fermo da cui guardare, è scomparso anche il qualcosa su cui fermare lo sguardo. Si è sempre ‘fuori’, il mondo stesso è un ‘fuori’. Trionfo del flusso, del trapasso, della liquidità orizzontale

Dunque, perdita dell’idea di profondità verticale: muoversi, ma non essere mai realmente in nessun luogo; andare dappertutto, ma non provenire da nessun luogo. Mondo ridotto a tempo di percorrenza, luoghi ridotti a nudi spazi, da percorrere e misurare con l’unico metro della distanza. 

Ma l’esistenza umana – dice Berdjaev – ha necessità di bilanciare l’orizzontalità con la profondità e l’altezza. Ha bisogno di interiorizzare un sopra e un sotto. L’espressione, qui sta il punto, è complementare a ciò che Giacomo Becattini (2009) definisce “luogo”: “in termini antropologici, un luogo è un contesto culturalmente definito, entro cui ogni essere umano definisce e costruisce la propria identità”. 

Abbiamo antropologicamente, oserei dire metafisicamente necessità di recuperare i luoghi del vivere, vale a dire dimensioni che stiano sopra e sotto di noi, che diano profondità e altezza verticale al nostro trascorrere orizzontale. 

2. Far mente locale 

Andare lontano, ma lontano da dove? Condannati al perpetuo esilio, respiriamo come un’aria di desolazione. I termini ‘esilio’ e ‘desolazione’ alludono etimologicamente a uno sradicamento, a un’estirpazione, alla perdita di un’appartenenza, all’allontanamento da una dimensione di profondità e di altezza che sia in grado di ospitare, nutrire, dare un senso. Quindi a un prosciugarsi della linfa vitale, a un essiccamento del vivere. Pensare localmente significa allora compiere “un’operazione ‘resistenziale’ ai processi di banalizzazione e di depauperazione” (Serio 2017, 153), non soltanto dei territori fisicamente e culturalmente intesi, ma della profondità dell’esistenza

A fronte della monotonia della deterritorializzazione “cresce l’aspirazione all’incommensurabile. All’incomparabile. Al refrattario” (Brague 2012, 63). Si sente il bisogno di far mente locale (la CeCla 2011). Fare mente locale vuol dire avere la capacità di opporsi alla deriva del vivere ovunque e dell’essere da nessuna parte, passare dal No-where, dal nessun luogo, al Now-here, al qui e adesso (Deleuze, Guattari 1996, 93). 

Significa riacquisire un rapporto di profondità con il tempo, limitando la temporaneità e recuperando la temporalità. La temporaneità “che ha la sua immagine nello spazio industrializzato, lo spazio della produzione e del consumo” (aSSunto 2005, 59) è una perpetua negazione fratturante: “il passato come il non più del presente; il presente come il non più del passato e il non ancora del futuro: il quale, a sua volta, è il non ancora del presente” (ivi, 62). Tempo a termine, quindi, retto da una sorta di obsolescenza programmata. La temporalità è invece durata, rammendo e recupero del passato nel presente, anticipazione nel presente del futuro, conservazione del presente nel passato. 

Pensare con mente locale significa far propri una situazione e un tempo, riconoscerli mentre in essi ci si riconosce. Significa installarvisi. Quindi riconciliarsi con la dimensione etica dell’esistenza. Un frammento di Eraclito ci apre la via: “èthos anthròpò daímon”. Il passo è stato variamente tradotto e commentato. Solitamente con: “L’indole, il carattere, è per l’uomo un demone”, oppure “il suo demone”. Traduzione che risente di una prospettiva psicologica del tutto assente nel pensiero greco. Propongo una diversa interpretazione. Il termine èthos ha come suo primo significato quello di ‘dimora’, ‘sede’, ‘tana’. Il frammento significherebbe quindi: “Il destino, l’indole profonda dell’uomo è nella dimora, nel far casa”. Siamo il nostro dimorare, dice Eraclito. Che cosa significa? Che l’abitare caratterizza ciò che siamo. Che il dimorare esprime l’essenza dell’uomo. O, in altri termini, che l’uomo è per indole un dimorante e un dimoratore. È quell’essere chiamato a rendere dimora ciò che lo circonda. È colui che per natura non ha casa, e che è costretto per sopravvivere a rendere ‘dimorabili’ gli ambienti nei quali si trova precipitato, per poi in essi mettere in le sue radici di senso. Privi di un suolo dove sentirsi ben piantati ci aspetta la desolazione, senza una qualche dimora ci attende la vita precaria, il vivere a perdere

Propongo quindi di definire ‘luogo’ una dimensione dell’esistenza in cui l’orizzontalità relazionale si armonizza con la verticalità spirituale, dove è possibile pensare, sentire, agire in modo dimorativo, all’insegna dell’altezza e della profondità. 

3. Rendere territori i luoghi 

Mantenere uniti gli uomini in virtù di carte, sigilli, obblighi, a nulla serve.

Solo sa mantenere uniti gli uomini ciò che aggrega ogni cosa in un vivo principio, come ciò che unisce le membra di un corpo, le fibre di una pianta (Whitman 1973, 436). 

Un semplice luogo diventa ‘territorio’ quando la sua superficie esprime un sotto e un sopra. O, detto altrimenti, un territorio è un asse energetico verticale che si irradia in orizzontale. La nostra post-modernità ha dimenticato o voluto dimenticare che il verticale precede l’orizzontale, lo fonda e lo garantisce. Il segreto della comunità, penso di qualsivoglia comunità, è tutto qui. Ricordo le parole venate di malinconia di un kibbutznik in una sera di quasi vent’anni fa, all’ombra di una veranda nel kibbutz di Ein Gedi sulle sponde del mar morto: “il fallimento dell’idea di kibbutz deriva dall’aver scordato che qualsivoglia tipo di socialismo comunitario per essere concreto deve avere motore e carattere spirituale”. In altre parole, l’orizzontalità della relazione con sé stessi, con gli altri, con il mondo implica una verticalità trascendente, a doppia direzionalità: verso il basso, di radicamento etico, verso l’alto, di ampliamento universale. Adriano Olivetti aveva compreso perfettamente l’anima verticale dell’orizzontale, quando immaginava i luoghi come territori dove “creare un comune interesse morale e materiale fra gli uomini che svolgono la loro vita sociale ed economica in un conveniente spazio geografico determinato dalla natura e dalla storia” (Olivetti 2014, 3). 

E proprio qui si va profilando uno degli errori, o se vogliamo dei limiti, del progetto di Adriano Olivetti (Peretti 2011, 128-129). Trascurò l’anoressia verticale che da molto tempo ha colpito l’Occidente. Non tenne conto che esistono bisogni che forze potenti e interessi immensi sottraggono alla coscienza dell’essere umano. Forze che lo inducono a negarli, quei bisogni, addirittura a rigettarli. Nonostante che di quel mancato riconosci- mento poi si ammali e ne muoia. Certo, gli esseri umani hanno disperatamente bisogno di territori dove incontrare sé stessi, tessere relazioni con gli altri, all’interno di una verticalità che li proietti oltre la loro finitudine. Senza dubbio necessitano dell’amore, della verità, della bellezza, della giustizia che Adriano Olivetti assunse come riferimenti per il suo progetto di ‘territorializzazione’ imprenditoriale. È vero, ne hanno bisogno. ma non lo sanno, perché da secoli viene loro detto il contrario. E se lo intuiscono non basta che trovino queste cose già pronte e scodellate perché le apprezzino. 

Senza verticalità l’orizzontalità si entropizza. Se non compresa, non condivisa e quindi mal utilizzata, l’energia del territorio rischia di rendere gli uomini ancora più meschini ed egoisti, li svuota di tensione, li snerva. Pensata per dar loro salute, se non genera una rivoluzione interiore li rende opportunisti e li fa ammalare di un odio maligno verso ciò che li nutre. Adriano proponeva la rigenerazione verticale dell’essere umano. In molti, moltissimi, quel progetto di apocatastasi non lo compresero, e continuano a non comprenderlo. Sgranarono gli occhi e si diedero di gomito. Per usare la terminologia che propongo in questo scritto, adottarono i vantaggi dell’orizzontalità senza maturare la necessaria, sottostante verticalità. Si accontentarono, più o meno furbescamente, di godere di vantaggi immediati e tangibili. Che Adriano non intendeva come fini, ma come strumenti per una più profonda palingenesi individuale e sociale. 

4. Mappare le sedimentazioni verticali dei territori: l’Intangibile lavorativo territoriale 

Le tre possibili tendenze racchiuse nel grembo del capitalismo attuale sono dunque: a) verso un mondo di flussi di merci, capitali, e uomini, che non si arrestano mai e che anzi tendono, ma non sempre vi riescono, a intensificare la loro velocità […]; b) verso un mondo di grandi società transnazionali che tendono a sostituirsi agli Stati-nazione come protagoniste del giuoco economico, ma anche culturale e politico; c) verso un mondo di comunità produttrici che crescono su se stesse; sviluppando ognuna – in una sfida continua con le altre, che si esprime principalmente nel confronto, insieme, delle rispettive merci e delle rispettive civiltà, sull’unico teatro mondiale – il suo genio particolare (Becattini 2009, 227; corsivo mio). 

Genius loci: ciò che esprime la natura più intima e profonda di un luogo. L’insieme di quanto lo rende “unico e inconfondibile”, che manifesta “le qualità morfologiche e storiche di un luogo e i segni della sua particolare civiltà” (Brilli 1997, 20).

L’italico genius loci lo si è cercato nei panorami, nei suoni, nelle atmosfere. Siamo viziati, e sviati, da un’idea di genius loci frutto della prospettiva tardo-romantica, alla Vernon Lee. Suggestiva, ma edulcorata ed edulcorante. Lo spirito dei luoghi nella “configurazione del terreno, la pendenza delle vie, il suono delle campane o delle chiuse d’acqua” (Vernon Lee 2007, 30). Questo non è che la superficie. È oltre e dietro, sotto e sopra, che fa capolino il vero spirito della nostra terra: nelle mani che hanno modellato quel terreno, tracciato quelle vie, forgiato quel metallo. Un genius che è espressione dell’anima operosa di coloro che vi abitano da secoli. Della loro fatica, intelligenza, passione. 

Qualcos’altro permette di cogliere l’italico genius loci. È il genius faber. È il lavoro, il lavoro italiano. Vale a dire uno stile di lavoro unico e inconfondibile, che ha radici, fisionomia e caratteri riconoscibilmente italiani. Il lavoro italiano esprime un particolarissimo modo di usare le mani, la testa, il cuore. Dice di una ben precisa filosofia, di un’etica e di un’estetica del vivere. Racconta di un certo modo di concepire l’essere umano, di rapportarsi alla natura, di fare comunità, di usare il pensiero (Peretti 2015). 

Il genius faber italico esiste. ma vive appartato, sovente costretto a una semiclandestinità, frainteso da un mainstream economicista e produttivista di insopportabile pochezza. Irriso da un pensiero che banalizza l’atto di lavoro, lo uniforma a regole anodine, lo separa dai mondi della cultura e dello spirito. 

Per aumentare la specificità, senza perdere la comparabilità, si dovrebbero tuttavia escogitare indici di ‘coesione sociale’ e ‘tipicità culturale’, particolarmente difficili da escogitare, ma al tempo stesso importanti, specie per un Paese come l’Italia, la cui unificazione nazionale e assimilazione della forma mentis anglosassone è recente e incompleta (BeCattini 2009, 277). 

Da dove partire per individuare gli indici di tipicità culturale di cui parla Becattini? Come mappare le specifiche forme di verticalità che caratterizzano i territori? La mia proposta è chiara e netta: dal lavoro. Letto, beninteso, non come puro atto produttivo, ma come sintesi di saper fare e saper essere, come arte di vivere calata nelle dinamiche produttive. Dal lavoro inteso come deposito privilegiato di atteggiamenti morali e civili. Dal lavoro interpretato come capitale intangibile territoriale

Per capitale intangibile territoriale intendo la proposta di civiltà espressa da un lavoro che sappia raccontare la cultura che lo ha generato e si opponga alla serialità del prodotto e all’anonimato produttivo. È il modo di lavorare che riflette la verticalità del luogo da e in cui nasce, il progetto identitario che lo anima. È il lavoro che dice secoli di vita, di pensiero e di passione che danno a una terra il suo carattere e il suo temperamento. Capitale intangibile lavorativo è il genius faber territoriale che rende i prodotti manifestazione di chi li ha concepiti, del come e del dove hanno preso vita, del loro quando e perché

Tra l’altro faccio notare che adottando il paradigma del genius faber territoriale scopriamo che l’Italia presenta veri e propri paesaggi lavorativi i cui elementi distintivi vanno ben oltre le vocazioni, i settori produttivi o le tipicità merceologiche. E che rendono superate le segmentazioni tradizionali quali il Nord-Centro-Sud Italia, i distretti, le macro-regioni produttive.1 Parlo di luoghi lavorativi capaci di “coralità verticale”, che si ritrovano attorno ad una storia comune, in grado di ospitare – scrive Alberto Magnaghi (2015, 116) – “capacità umane e condizioni materiali irripetibili altrove, perché maturate nel corso dei secoli”. Realtà territoriali ad alto valore verticale, in grado di dotare i prodotti di un valore aggiunto in termini di asset intangibili, perché conservano e manifestano “un patrimonio di conoscenze, attitudini, valori, cultura, e senso di identità”. 

Come esempio riporto uno dei risultati emersi da una ricerca quali-quantitativa curata da Genius Faber in collaborazione con Intesa San Paolo che ha visto coinvolte più di 800 imprese rappresentative delle PmI italiane: se analizziamo il panorama imprenditoriale italiano attraverso la lente dell’Intangibile Lavorativo Territoriale emerge che l’Italia non è divisa tra Nord e Sud, ma tra Est e Ovest, e che gli Appennini rappresentano la dorsale geografica che divide longitudinalmente la penisola in due luoghi lavorativa- mente molto diversi. 

5. L’Intangibile lavorativo territoriale come strategica leva competitiva 

Mandano troupes televisive in azienda da noi perché non vogliono comprare un marchio che parla dell’Italia e che ha un nome italiano, ma vogliono far vedere al cliente finale che tu sei uno che è in Italia, uno che fa le cose e le fa in una determinata maniera, rispetta la tradizione, racconta la verità su quello che poi uno vede e tocca sullo scaffale del negozio (testimonianza di un imprenditore in Serio 2017, 140). 

Per le imprese dell’avanguardia produttiva internazionalizzarsi significa ripensarsi come impresa glocale, un’impresa che si avvale della spinta data dai saperi depositati nel territorio in cui si innesta per spiccare un volo originale nel mercato globale (ivi, 150). 

Il mondo del consumo – e in particolare quello della grande distribuzione, notoria- mente molto sensibile ai cambiamenti in atto – si sta spostando dal prodotto a ciò che con un neologismo chiamo condotto.

Prodotto – dal latino producere, condurre innanzi, portare fuori, portare avanti – è ciò che scaturisce dal processo produttivo. È il risultato orizzontale di un lavoro. È la tensione produttiva cristallizzata in un oggetto o servizio separato dal lavoro che lo ha generato. Prodotto è il risultato orfano del processo. 

Condotto – dal latino conducere, accompagnare, guidare, portare assieme – è il prodotto vivente, che vive del lavoro da cui proviene, che rilascia e comunica il lavoro da cui scaturisce, il saper fare e il saper essere del produttore. È il risultato animato da tensione verticale. Condotto è il risultato riconciliato con la profondità dell’atto produttivo. 

Il condotto non si esaurisce nel valore commerciale del prodotto. Ha le energie per trascenderlo e ulteriorizzarlo. Si ribella all’essere considerato come semplice merce. Gode di un misurabile ‘plusvalore lavoro’, in grado di dotare il prodotto di una verticalità distintiva. 

L’era del prodotto sta volgendo al termine. Sorge l’astro del condotto. E con esso si vanno affermando tre tendenze di consumo: 

  • behind, tendenza a conoscere il prima e il dentro dei prodotti;

  • oltremeità, tendenza a riunirsi attorno a idee o iniziative che permettano di percepire il ‘noi’, vale a dire il carattere intersoggettivo dell’identità individuale;

  • autenticità, tendenza a ritrovare schegge di verità e intimità nella ‘pornografia’ del reale.

    Behind

    Il consumatore vuole sempre più ridurre le asimmetrie informative, per un’aumentata consapevolezza di consumo e per un bisogno sempre più avvertito di sicurezza. Si va affermando in maniera prepotente il bisogno di conoscere le origini da cui un bene o un servizio provengono – a maggior ragione se il bene/servizio viene proposto attraverso il canale digitale.

    Rispondere alla domanda di prima e dietro significa raccontare ciò che di un bene/ servizio è il suo prima e dietro per eccellenza: il lavoro che lo ha generato. Nei prossimi anni il lavoro – quello vero e concreto, che si sviluppa attraverso la testa, il cuore, le mani dei produttori – tornerà ad essere protagonista degli scenari di mercato. Crescerà in maniera esponenziale la richiesta di informazioni-narrazioni sulla verticalità lavorativa, su ciò che rende un bene/servizio espressione di chi lo ha concepito, del come è stato realizzato, del dove ha preso vita, del suo quando e perché.

La vera rivoluzione che si sta annunciando è profonda: il consumatore sta (ri)prendendo coscienza che un prodotto/servizio è innanzitutto il lavoro che contiene. La tendenza che si va affermando è la ricerca di informazioni sull’interno energetico del prodotto. Con questa espressione non intendo la sua struttura molecolare, bensì l’insieme delle forze intangibili che lo attraversano, lo costituiscono, lo animano e lo rendono ciò che esso è. Fattore determinante le scelte di acquisto sempre più saranno le informazioni/narrazioni circa il genius faber contenuto dal prodotto. 

Oltremeità 

A fronte di una realtà sempre più caotica – che ormai appare più melmosa che liquida – cresce il bisogno di gerarchia. Non certo di autoritarismo militaresco e tantomeno di ottusa subordinazione. L’etimologia del termine chiarisce la questione. ‘Gerarchia’ de- riva da hieros (sacro) e arché (principio). Rimanda a un’idea di ordine sacro, di struttura universale che armonizza parti e intero, dove l’intero tiene conto delle parti, mentre le parti contribuiscono alla saldezza dell’intero. Il disordine globale torna a far crescere il bisogno di sentirsi organicamente parte di dimensioni sovraindividuali, nelle quali ciascuno possa trovare senso per sé prendendosi cura del tutto, mentre il tutto cresca nel rispetto dei singoli che lo costituiscono. 

In molti stanno riscoprendo che assomigliare sempre e solo a sé stessi intristisce e rende profondamente infelici. L’identità intersoggettiva riaffiora alle coscienze individuali, seppur ancora nelle forme sovente banalizzanti delle comunità virtuali. Si sente in giro la rinnovata percezione che l’io può esistere perché un qualche noi se ne fa garante. Che siamo in quanto possiamo rispecchiarci negli occhi che guardiamo e che ci guardano. È in aumento la voglia di partecipare, di ingaggiarsi con e per gli altri, ma senza adesioni ideologiche, senza squilli né fanfare. 

Autenticità 

L’ombra dell’inautentico sembra essersi saldamente distesa sul mondo. Immagine, apparire, cose e persone ridotte a selfie compulsivo. In un delirio che pare inarrestabile. ma quanto più si rafforza la tendenza alla finzione epifanica, tanto più si manifesta la tendenza opposta: il bisogno di vivere l’autenticità. 

Il gusto sorpreso dell’incontro con la genuinità, il piacere della schiettezza, la voglia di naturalità. Non soltanto come tendenza salutistica alimentare, ma come anelito esistenziale: sincerità nei rapporti interpersonali, trasparenza relazionale, spontaneità nel modo di essere e di esprimersi. 

6. La grande opportunità 

Il XXI secolo ha bisogno di rinnovata verticalità. Segnali incoraggianti indicano l’alba di una nuova economia, fondata sulle relazioni e non più soltanto sugli scambi. E se gli scambi prosperano nell’orizzontalità di superficie, per le relazioni occorrono profondità valoriale e altezza spirituale. La trasmissione della verticalità dei territori attraverso il racconto del genius faber territoriale sarà la chiave per rispondere ai trends di consumo relazionale dei prossimi anni. Risulterà decisivo offrire al consumatore globale narrazioni collettive in grado di mostrare il genius faber sorgivo dei prodotti, far vivere esperienze di identità condivisa, rispondere al bisogno di fiducia attraverso la messa in coerenza di prodotti e retroscena produttivi. 

Per i territori lavorativi – dove l’orizzontalità dello scambio si arricchisce di verticalità etica e spirituale – si apre una grande e concreta opportunità: favorire l’affermazione di una nuova forma di economia e di mercato, fondata non più su merci feticcio, ma su relazioni estetiche, etiche, esistenziali tra produttore e consumatore. 

Riferimenti bibliografici 

Assunto R. (2005), Il paesaggio e l’estetica, Novecento, Milano

Becattini G. (2009), Ritorno al territorio, Il Mulino, Bologna.

Berdjaev N. (2004), Nuovo medioevo, Fazi Editore, Roma (ed. or. 1923).

Brague R. (2005), La saggezza del mondo. Storia dell’esperienza umana dell’universo, Rubbettino, Soveria 

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Brilli a. (1997), Il viaggiatore immaginario, Il mulino, bologna.

Deleuze G., Guattari F. (1996), Che cos’è la filosofia, Einaudi, Torino (ed. or. 1991).

La Cecla F. (2011), Mente locale. Per un’antropologia dell’abitare, Elèuthera, Milano.

Magnaghi a. (2015), “Dal territorio della Comunità concreta alla globalizzazione economica e ritorno”, in 

Bonomi A., magnaghi A., Revelli M., Il vento di Adriano. La comunità concreta di Olivetti tra non più e non 

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Olivetti A. (2014), L’ordine politico delle Comunità, Edizioni di Comunità, Roma (ed. or. 1945).

Peretti A. (2011), La sindrome di Starbuck e altre storie. Il lavoro attraverso la letteratura, Guerini e Associati, Milano.

Peretti A. (2015), Genius faber. Il lavoro italiano come arte di vivere, IPOC, Milano.

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Sloterdijk P. (2005), L’ultima sfera. Breve storia della globalizzazione, Carocci, Milano. Vernon Lee (2007), Genius loci, Sellerio, Palermo (ed. or. 1899).

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