Terre di Lavoro

Il Paesaggio interpretato e comunicato attraverso l'identità lavorativa dei Territori.

Scopri di più Vai al sito

Genius Faber - Logo

La cultura d’impresa è la chiave per il successo delle imprese italiane. Oltre alle sfide tecnologiche le aziende italiane hanno la necessità di rafforzare le proprie radici valoriali: “l’imprenditore deve essere socialmente responsabile, con un chiaro ruolo sociale”.

È trascorso quasi un anno dalla sua nomina a Presidente di Piccola Industria. Quale sono oggi gli indirizzi che reggono e guidano il suo progetto di presidenza?

Sono gli stessi che erano e sono alla base del mandato che mi ero posto il 23 novembre 2017 quando sono diventato presidente nazionale. Innanzi tutto un forte impulso e un deciso lavoro su tutto quello che io definisco la cultura di impresa, cultura a 360° su tutti gli aspetti della conoscenza, della formazione, dell’informazione. Come secondo aspetto, vogliamo dare all’imprenditore un ruolo attivo all’interno della comunità di riferimento. Bisogna stimolare l’apertura mentale dell’imprenditore attraverso la capacità di contaminarsi, di uscire dalla fabbrica, di andar fuori per capire quali sono le leve dello sviluppo. L’imprenditore come soggetto con un preciso ruolo sociale. Questi due aspetti sono finalizzati alla crescita economica.

Quale modello imprenditoriale vedrebbe come particolarmente adatto per facilitare l’adozione delle tecnologie 4.0? La cultura d’impresa dovrebbe in qualche modo insistere maggiormente sui caratteri di italianità?

Io credo che noi dobbiamo essere consapevoli e ancor più responsabili di una cultura d’impresa che portiamo da secoli nel nostro DNA, non dobbiamo stravolgerla, ma dobbiamo comprendere che ci troviamo a operare in un mondo in continua evoluzione. Lo sforzo che stiamo facendo è quello di convincere a mantenere alcune caratteristiche, ma continuare a cambiare e migliorare. Siamo partiti dalle botteghe rinascimentali per poi arrivare all’artigianato, e successivamente all’industria manifatturiera di eccellenza e di precisione, per cui adesso bisogna fare il grande salto nell’innovazione 4.0. In particolare bisogna puntare sulla formazione continua, sull’open innovation, però il filo rosso conduttore deve rimanere quello della cultura d’impresa tipicamente italiana che è un modello a sé stante. È un modello di eccellenza imprenditoriale al livello mondiale.

Identificare le caratteristiche lavorative delle piccole imprese in particolare il loro modo di lavorare può contribuire allo sviluppo dell’autentico Made in Italy?

Secondo me sì, è assolutamente importante definire un format, codificare determinate caratteristiche vincenti della Piccola e Media impresa italiana che si sono sviluppate nei secoli. Così come è importante un lavoro, che stiamo portando avanti in questi mesi, di contaminazione con altre realtà simili alla nostra, in particolare la Francia. Stiamo collaborando con MEDEF (l’equivalente della nostra Confindustria) per capire quali sono caratteristiche che possiamo mutuare e nello stesso tempo quali possiamo portare a loro. Certamente noi abbiamo un modello d’impresa famigliare, con luci e ombre. Loro hanno più aziende di media grandezza e noi siamo più forti sulle piccole, ma noi siamo molto più bravi ad esportare. Quindi ci stiamo incontrando perché loro vogliono capire la nostra propensione all’export, non capiscono come riescono aziende piccole a competere con aziende relativamente grandi. Noi vogliamo capire i loro modelli, come la propensione alla managerializzazione.

Molte grandi aziende adottano sistemi di gestione e formazione del personale sempre più all’avanguardia. Pensa che anche per la piccola impresa sia importante fare innovazione nel campo della formazione delle risorse umane?

Tantissimo, essenziale, ormai è imprescindibile. Quando parlo di formazione, parlo innanzi tutto della formazione dell’imprenditore. Non sto parlando di quella del collaboratore, che nell’epoca del 4.0 ovviamente è una formazione molto diversa, molto evoluta. L’imprenditore sempre di più deve uscire dall’azienda, sviluppare competenze e portarle all’interno attraverso la managerializzazione dell’impresa. Manager ed imprenditore non sono la stessa cosa.

In Italia le Startup sono un fenomeno in grande diffusione. Quanto è importante per una start up italiana evitare un’adesione acritica a modelli organizzativi e di business tipici di altre culture imprenditoriali?

Il fenomeno delle startup è un fenomeno in divenire e da guardare con estrema attenzione, purtroppo ci siamo entusiasmati all’argomento troppo facilmente. Ora stiamo comprendendo alcune criticità di questo modello, io lo sto vedendo da un lato come presidente di piccola industria e dall’altro come imprenditore che ha investito ed investe in startup. Il mondo delle startup è estremamente deregolato e nella sua varietà è anche molto caotico. Io vedo le startup come momento di interesse laddove possono diventare modelli di open innovation. La startup diventa un organismo di contaminazione dell’impresa, la quale può agire da mentore aiutando la startup a crescere. Per contro la startup agisce come motore di innovazione per le aziende stesse. Credo moltissimo in quest’osmosi, un modello dove l’azienda più strutturata, che sia anche piccola, diventa una sorta di incubatore di una startup e la startup porta idee, innovazione, vivacità in un’ottica di filiera. La startup entra come modello in un’azienda che oggi ha necessità di innovarsi, può essere un principio di sviluppo attraverso cui partire per poi avere il suo business e trovare un suo sbocco con infinite possibilità di crescita. Ho visto idee di business non estremamente innovative che hanno avuto e stanno avendo un certo successo. Questo perché le persone che le hanno sviluppate hanno capacità, competenza, sono serie, si impegnano, hanno visione, e in questo modo è possibile seguirle e appoggiarle in modo che tutto funzioni.

Ma mi è capitato, sempre personalmente, di vedere startup con idee bellissime ed estremamente innovative che poi non funzionano. Non funzionano perché le persone non vogliono ascoltare, a volte i giovani pensano di essere già pronti e di conoscere tutto quello che occorre per fare impresa. Questo succede perché la cultura d’impresa è molto bassa tra i giovani: non basta uscire dalla Bocconi e fare una startup. Anzi sovente la presunzione è il primo ostacolo da superare. Anche per le startup la cultura d’impresa dell’imprenditore è fondamentale.

Circa il 30% di piccole e medie imprese sono guidate da imprenditori over 70 anni. A livello competitivo quale peso può giocare il passaggio generazionale nei prossimi anni?

È un tema che ho sul tavolo tutti i giorni, un tema che è tra i primi tre temi che abbiamo in obbiettivo in questi mesi. Anche qui ci troviamo ad aver a che fare con il problema della cultura d’impresa. Molti imprenditori non prendono in considerazione questa fase perché in Italia è concesso che l’impresa sia intesa “come mia”, come una qualsiasi altra proprietà. Quando parlo di imprenditoria parlo di realtà con un ruolo sociale, ma ancora si fa fatica a comprendere che l’impresa va oltre l’imprenditore. Infatti, non mi piace parlare di passaggio generazionale ma di continuità aziendale, che sono due cose diverse. Il concetto italiano è il passaggio generazionale, come se passare ad un figlio l’impresa fosse un po’ come vendere un appartamento o un garage, la si tramanda al figlio anche se non ha le competenze. Invece il concetto che amo portare avanti è che l’impresa non è tua, ovvero che non puoi concepirla come tua nel senso di una merce, piuttosto l’imprenditore, pur essendone il proprietario legale, ne è soprattutto il responsabile. L’impresa ha responsabilità sociali e doveri enormi verso i suoi stakeholders, a cominciare dal territorio e dalle comunità di riferimento. Non parlo solo di posti di lavoro, ma di una vera e propria responsabilità verso tanti aspetti della comunità. È un dovere per l’imprenditore occuparsi e preoccuparsi della continuità delle imprese, della creazione di valore aggiunto per tutto gli interessati. Il che vuol dire che mio figlio può essere l’azionista, ma non è detto che debba essere il manager che porta avanti l’impresa. Quindi come imprenditore mi devo occupare fin da subito di responsabilizzare mio figlio, in modo che possa crescere in competenze, per, eventualmente, un giorno affidarsi alle sue capacità di guidare l’impresa.

In Francia questo tema è presente in maniera simile alla nostra e stanno provando a risolverlo con manager che danno continuità nella gestione. Un’altra iniziativa che stanno adottando riguarda i figli degli imprenditori che manifestano delle attitudini al fare impresa: i giovani vengono incentivati a sviluppare dei progetti, una sorta di startup, all’interno dell’impresa in funzione sia di portare innovazione ma anche di far vivere la realtà di impresa da tramandare.

Quanto ritiene importante, sempre in un’ottica di salute organizzativa e di benessere aziendale, che l’azienda sia valorialmente robusta e abbia una propria identità indipendentemente della figura del proprietario?

Fondamentale, non è un elemento, sono le fondamenta. L’anima dell’impresa è quell’identità che nasce dai territori, dalle radici culturali e valoriali. Non è che tutti i territori sono uguali anche dal punto di vista lavorativo, ci sono radici diverse e questo è il bello delle imprese italiane: la loro capacità di contaminare e farsi contaminare. I valori identitari sono assolutamente la radice dell’impresa e sono la vera forza del made in Italy.

Pin It on Pinterest

Genius Faber

Menu

Tematiche

Sezioni

Altro